Una raccolta di 12 foto scattate da voi viaggiatori durante le nostre scorribande per il mondo nel 2014. Tigri, gorilla, camaleonti, giaguari... Sedetevi comodi per qualche minuto, aprite un buon vino e spolverate la vostra macchina fotografica.
Sorvoliamo l’Atlantico e atterriamo in Europa ora, per la
Domanda N°2
Ditemi velocemente dove pensate-credete-immaginate che
pascolino felici i bisonti europei.
Perché TUTTI voi sapete che ci sono bisonti in Europa,
vero??
Da bravi naturalisti che siete avrete pensato alla Polonia, magari i più
audaci avranno detto Russia e Romania, magari i più fantasiosi avranno detto
Germania…
Ora facciamo un salto nel futuro immediato, solo una
sbirciatina.
Anno domini XXX, diciamo 2030.
La risposta alla domanda N°1 potrebbe sorprendervi.
GHEPARDO-LEONE-ELEFANTE
Quella alla domanda N°2 pure.
Gran parte dell’Europa centrale in pratica, dall’Olanda ai
Carpazi, dalla Lituania alla Romania.
Sembra che sia ufficialmente iniziata la partita globale del
“Rewilding”, il far tornare la Megafauna nel ricco e opulento Occidente. Quindi
via libera a tutte quelle bestie obese che scorrazzavano nelle praterie e nei
boschi nordamericani in epoche varie da milioni di anni fa fino a circa 13000
anni fa, Pleisotocene. Il leone? Roba loro. Degli ammerigani. Il ghepardo?
Pure. Cammello, mastodonti vari, mammuth, cavalli? Anche.
Quattro specie di cammelli, tre specie di cavalli, cinque specie
di elefanti, grandi predatori assimilabili agli odierni leoni e ghepardi…poi
più nulla. Si sono trasferiti in Asia attraverso l’odierna Alaska, mentre
nell’America Settentrionale arrivavano dalla Siberia il popolo Clovis, i
famigerati cacciatori di Mammuth dalle letali lance, e la festa era finita…e
iniziava quello che è stato chiamato il “Pleistocene
Overkill”, la mattanza insomma…
E allora reintroduciamo i loro parenti più stretti, quelli
attuali, in enormi aree private isolate degli USA, in un furore ecologico e in
una fede assoluta nei fenomeni di regolazione trofica top-down da fare invidia
ad un bombarolo dell’ISIS.
Il punto di riferimento non è più l’arrivo degli europei in
America quindi, ma il Pleistocene.
Non mi interessa fare rivivere la fauna sterminata dagli
spagnoli, ma quella sterminata dai cavernicoli.
Prima di ridere del “Rewilding”, attenzione! Qui non si
parla di un dibattito scientifico che si sviluppa su Focus, Gardenia o
ViverSanieBelli. Ma di questo ad esempio:
Fatevi un giro qui. Occorre
dire che è coinvolgente la faccenda, sembra un po’ l’apprendista stregone di
“Fantasia” della Disney, o il pianeta Protoplas dell’ “Elianto” di Stefano
Benni…
Lo scopo di tutto ciò è nobile, e nasconde un enorme senso
di colpa da ominide consapevole che tutte queste enormi bestie sono scomparse
milioni o millenni di anni fa anche e soprattutto per causa nostra…cosa c’è di
meglio allora del“Rewildling” come
catarsi, fare esperimenti ecologici di “restoration ecology” ed “evolution”, e
riportare il tutto ad una condizione ancestrale più naturale? 20 grammi di
protezione della biodiversità aggiunti a 5 grammi di Rewilding et voilà!
abbiamo la nostra strategia di conservazione.
Poi si giura e spergiura che, sì, ci saranno anche grosse ricadute
economiche, ma non si tratterà di tanti Jurassic Park sparsi per l’America, che
sappiamo come è andata a finire…
Andiamo in Europa ora.
Due fatti:
L’Europa
è più “verde” ora rispetto a 100 anni fa. Sembra che ci sia una tendenza
generale della popolazione umana verso l’abbandono delle campagne e delle
montagne (i nostri Appennini lo confermano…).
La
legislazione europea sembra essere particolarmente incline a favorire
programmi di conservazione di specie e/o ecosistemi negli ultimi anni, in
un network transnazionale di forte impatto.
È in questo humus che è iniziato quest’anno il“Bison
Rewilding Plan” (2014-2024), dell’olandese Rewilding Europe con la consulenza
della Zoological Society of London.
Lo scopo è quello di diffondere un po’ ovunque il Bisonte europeo (Bison
bonasus) in Europa centrale, dall’Olanda alla Russia e lungo tutti i
Carpazi. Ovviamente allo stato libero.
Magari evitando soluzioni fantasiose già effettuate come
prova, come la reintroduzione in isole sabbiose danesi, riserve private
scozzesi in mezzo a percorsi escursionistici, ex stazioni militari sovietiche
ancora minate…
Lo sanno tutti che con queste reintroduzioni di megafauna
non si potrà mai più rivivere i fasti ecologici del Pleistocene, ma rinvigorire
gli ecosistemi con i cugini degli animali che li hanno modellati nel passato,
quello almeno lasciateglielo…
Noi per quest’anno continuiamo ad andarlo a vedere a Bialowieza,
ma chissà per il futuro…
Ovviamente in Europa “rewilding”non coinvolge solo bisonti. Ma tante
altre bestiole, magari del Pleistocene, chissà. Questo è il network che si sta
creando:
Rewilding
Europe areas (in purple) and other rewilding initiatives (in red) across
Europe.
By August 2014, 34 areas are
part of the network.
Ah, c’è anche il nostro Appennino Centrale come
luogo designato per la reintroduzione della megafauna. Non si sa bene ancora
chi sarà il prescelto, ma ho come l’impressione che, cari allevatori e
contadini abruzzesi, l’orso marsicano vi sembrarà un peluche Trudi a confronto…
Quest'ultima presa da qua. Dove ne trovate
altre, quante ne volete.
La prima è stata scattata lungo il fiume Paraguay, vicino al
confine tra Brasile e Bolivia, durante il nostro ultimo viaggio dell’estate
scorsa.
La seconda è stata scattata in un qualche zoo in giro per il mondo.
La prima ha richiesto più di 10 ore di canoa veloce lungo il
fiume Paraguay, per un totale di oltre 200 km. La foto è stata scattata dalla
canoa, il fotografo non ha potuto decidere
l’inquadratura, l’angolazione della luce, e soprattutto la durata
dell’incontro. Che è stato di circa 12 minuti.
La seconda ha richiesto presumibilmente mezz’ora di auto per lo zoo, il
biglietto di ingresso e qualche dollaro per le patatine e una bibita fresca. Il
giorno migliore lo ha deciso il fotografo, l’ora con la luce perfetta pure.
La differenza, al netto dei tecnicismi fotografici, sta
nello sguardo dell’animale. Trovate le differenze da voi.
Con l’avvento della fotografia digitale e il moltiplicarsi
dei più o meno seri concorsi fotografici, la fotografia naturalistica si trova
di fronte ad un bivio. O meglio un labirinto di via da percorrere, lastricate
di buoni propositi, ansia da prestazione e tanta furbizia.
Guardate queste foto recenti, più o meno note, più o meno premiate, più
o meno furbe.
Lascio a voi decidere quali sono gli animali che sono stati noleggiati
(sì, avete capito bene…), quali sono stati attirati con delle esche, quali sono
stati spacciati per quello che non erano, quali sono il risultato di artifici
digitali da apprendista stregone.
Questa sconosciuta.
Che si tratti di animali in cattività spacciati per liberi o di cosmesi
digitale, c’è un modo facile e un modo “wild” per fotografare animali. Al
simposio londinese di WildPhoto del 2010 è stato chiesto a 400 fotografi
naturalistici di confessare i propri peccatucci e di rivelare i desideri
proibiti. Ebbene, se la pratica di noleggiare un animale come modello è parsa
accettabile solo al 5% dei fotografi, il fotografare animali allo zoo non è
parsa ai più una scelta deprecabile (70%), ammettendo ovviamente lo stato di
cattività dell’animale (90%). Poi vanno bene i ritocchino chirurgici digitali
(80% degli intervistati) e persino qualche aggiunta posticcia (5%), anche se
meno di un terzo dei fotografi ammetterebbe questi lifting.
Nemmeno se la cosa scavalca allegramente il ridicolo per impantanarsi
nel patetico, come questo
signor fotografo svedese (pluripremiato) dotato del superpotere di vedere e
fotografare linci ovunque, anche dove non avrebbero dovuto esserci…
E cosa dire della smania di avvicinarsi al soggetto sempre
di più (la regola aurea di Robert Capa “se le vostre foto non sono
abbastanza buone non siete abbastanza vicino” non è consigliabile con un
giaguaro di 130 kg che ti fissa negli occhi…), o di farselo portare dalla guida
giù da un albero sto benedetto animale, per sistemarlo bene in posa (con i
bradipi brasiliani è prassi comune…)?
Fioccano le linee guida, i dogmi e i paletti della
fotografia naturalistica. Questi sono quelli
afferenti alla “North American Nature
Photography Association” (NANPA).
Se è vero che può essere tremendamente difficile fotografare
molti animali elusivi in natura, e che orde di fotografi sparsi nelle foreste e
giungle di tutto il mondo potrebbero causare danni ecologici rilevanti (passivi
come nel caso di una frequentazione assidua di un’area ecologica e attivi come
l’avvicinarsi
troppo ai piccoli, a siti di riproduzione, nidi…), i ritratti intimi di
tigri, orsi e pinguini dietro le sbarre di uno zoo difficilmente possono essere
considerati “fotografia naturalistica”, ma più chiaramente rappresentano
l’ennesimo tentativo di appagare il nostro lato “wild” con dei surrogati
addomesticati, e di trasformare la wilderness in un artefatto umano.
Noi preferiamo altro. Questo è il nostro giaguaro (fra i tre che abbiamo visto). Agosto 2014,
Pantanal brasiliano.
Perché mai si dovrebbe scrivere nello stesso post di lupi
grigi dello Yellowstone, di un’improvvisa voglia di carne da parte dell’ Homo
erectus e dell’estinzione di 6 miliardi di esseri umani entro il 2100?
No, fermi! Non incominciate a immaginare lupi che sbranano
miliardi di persone od ominidi del primo Pleistocene che cucinano lupi alla
griglia.
Immaginate meglio. Siate creativi.
La prima immagine che si materializza è quella di un branco di lupi
grigi nelle foreste montane di Yellowstone, Wyoming. E di cervi. E di pioppi e
salici.
Da circa quindici anni si sta dibattendo sul fatto che lupi,
cervi e alberi siano strettamente collegati in quella che tecnicamente viene
definita Trophic cascade,
un matrimonio alimentare “finchè morte non vi separi”.
Elimino i lupi (come accaduto dal 1880 al 1920)? I cervi
sguazzano, le piantine di Populus tremuloides, Populus trichocarpa,
PopulusangustifoliaSalix boothii e Salix geyeriana un po’ meno.
Reintroduco i lupi (come avvenuto dal1995/1996)? I cervi
eviteranno le aree con più alta densità di lupi a beneficio del reclutamento
delle piantine.
È un sistema top-down: il predatore che sta in cima
alla torre d’avorio è il demiurgo della situazione, “decide”, la densità delle
sue prede, il loro comportamento, con ricadute demografiche sul livello
alimentare inferiore.
Bello e semplice, come da manuale. Ci hanno persino fatto un
articolo del National Geographic qualche tempo fa:
Ma non del tutto vero.
O meglio: non basta a descrivere i fenomeni ecologici
osservati. Ad esempio
c’è chi dice che:
“Predators can be important, but
they aren’t a panacea.”
Che
sono favole che ci raccontiamo per semplificare il tutto, che non bastano.
“Everyone likes to think of the big
wolf or the big bear looking after the environment,[…] we do love a good
story.”
Occorre
invece anche rispolverare i vecchi processi ecologici di bottom-up.
Ovvero di regolazione della catena dal basso, partire dai fattori abiotici
quali la composizione chimica del suolo, le risorse del terreno, il clima, lo
stravolgimento dell’habitat, che influenzano la biomassa vegetale che a sua
volta regolerà le dinamiche dei consumatori primari e su fino ai predatori. Che
quindi risultano un po’ più passivi, attori di secondo piano che non hanno il
potere di modellare i sistemi ecologici. Che la sfida per gli ecologi è quindi
di integrare le due visioni se si vuole fare luce sulla questione.
Mettiamo da parte per un momento i nostri lupi, la seconda immagine ci
catapulta nel primo Pleistocene, circa 1,5 milioni di anni fa. Africa orientale. Serengeti per esempio. Chi è
venuto con noi in viaggio sa di
quale meraviglia si sta parlando. Un luogo primordiale, incontaminato, con una
fauna in larga parte rimasta immutata nel tempo…
Come no. Sbinocolando avete avvistato tigri dai denti a
sciabola? Iene enormi dalle zampe lunghissime? Enormi orsi-cane? Tassi grandi
quanto un leopardo?
Il fatto è che i siti fossili dell’Africa Orientale ci svelano
un caravanserraglio di carnivori alieni ai nostri occhi che si sono succeduti
nel tempo che va dai 7,5 a 1,5 milioni di anni fa, un avvicendarsi di comunità
diverse nella composizione ma costanti nel mantenimento dei tratti tipici dei
carnivori.
E poi tra 2 e 1,5 milioni di anni fa PUFF! Interi gruppi
funzionali che scompaiono, tassi di estinzione sempre più veloci, comparsa
degli attuali leoni, leopardi e compagnia bella…
Cosa è successo?
Un’ipotesi
che sta emergendo riguarda noi, o meglio quel bruto dell’ Homo erectus.
Emerge circa 1,5 milioni di anni fa e stravolge tutto. Cosa gli viene in mente
a questo qua? Si fa un cervello più grande, incomincia a costruire utensili,
coopera, si arma e…cambia dieta. Non solo radici, bacche e piantine, ma anche
carne, carne, carne. E poco importa se c’è di mezzo una sabertooth. Fatto sta
che la competizione con i carnivori potrebbe essere diventata pressante, e
l’alzati Lazzaro l’avrebbe spuntata. Con ricadute drammatiche sull’intero
sistema ecologico sottostante. Effetto Top-down, una bella cascata
trofica ad arte.
E infine arriviamo alla terza immagine.
Ciò che i lupi di Yellowstone hanno abbozzato e l’ Homo
erectus ha intrapreso, l’ Homo sapiens ha perfezionato.
Una perfetta cascata trofica dall’alto al basso, un ruolo da burattinaio
che nessun supercarnivoro ha mai esercitato sugli ecosistemi.
A quanto pare siamo tanti e affamati.
La bella notizia è che, estrapolando la legge di Moore, in un
qualche futuro la tecnologia ci potrebbe aiutare a produrre meglio, consumare
meno, salvaguardare di più.
La cattiva notizia è questa:
Fig. 4. Regional
variation and impacts. Human population projections under the BAU levels of
population growth (2013 matrix; Scenario 1) for 14 subregions
(R1–R14; see below
for country composition). Regional shading indicates relative mean population
density projected for 2100: white shading = 0 persons km−2 to
darker shading =
656.6 persons km−2). Values next to
each region line (legends) indicate the ratio of the projected 2100 population
(N2100) to the 2013 start
population (N2013). Red hatched overlay indicates position of global Biodiversity
Hotspots
(From:
Bradshow C.J.A. & Brook B.W. 2014 “Human population reduction is not a
quick fix for environmental problems.” PNAS)
Guardate un po’ questo articolo pubblicato recentemente su PNAS.
La simulazione di possibili eventi e la loro conseguenza sulla
curva demografica umana ci dice che per
diminuire la popolazione mondiale ad un livello accettabile nel 2100 (diciamo
fino a 4-5 miliardi) non basterebbero politiche di
contenimento della natalità su scala globale (se non l’impossibile proposta di
un figlio per coppia con tassi di mortalità non ridotti), eventi di mortalità
di massa della durata di 5 anni iniziati nel 2056 con un numero di morti pari
alla somma di quelli delle due guerre mondiali e dell'influenza spagnola,
apocalissi da 2 miliardidi morti, mortalità infantili su larga scala dovute a
cambiamenti climatici…
Solo la linea 9 (a meno che non si attui la già citata
politica del figlio unico su scala globale, come no) potrebbe essere
sufficiente per tarare la popolazione mondiale a 4-5 miliardi nel 2100.
Di cosa si tratta? Nulla di cui spaventarsi, una pandemia o
una guerra iniziata nel 2041 della durata di 5 anni. Con 6 miliardi di morti.
I più misantropi penserebbero che “No Bruce, non
dovevi proprio salire su quell’asteroide…”
Mettiamo che una mattina alzandovi dal letto decidiate di
volere conoscere quante e quali specie si nascondano nella foresta amazzonica.
Un domanda più che lecita, tra la brioche e il cappuccino. Chi di voi ci ha
seguito nei nostri ultimi viaggi in Amazzonia, Uganda e altri posti
impenetrabili potrebbe avere un cedimento della mascella inferiore a questa
richiesta.
La ricetta giusta per eseguire un ottimo ed esaustivo piano
di censimento faunistico su larga scala in territori inospitali contempla i
seguenti ingredienti (tra i tanti):
Che, diciamocelo, appare piuttosto improbabile da
realizzare. A meno che non vogliate passare tutte le prossime domeniche della
vostra vita a strisciare nel fango e ad arrampicarvi su alberi alti 30 metri
sacrificando i picnic fuori porta con la famiglia e le gite col cane.
Ma allora come si fa nella realtà?
Si fa che si prendono una o più piccola aree (plot) o si
eseguono dei transetti, e li si vivisezionano per anni, annotando il numero,
l’identità, la distribuzione, il comportamento, i rapporti trofici e il maggior
numero di altre informazioni riguardo le specie e l’ambiente in cui vivono. Da
impazzirci. E poi in qualche modo sicostruisce un modello statistico scegliendo tra le innumerevoli distribuzioni
di probabilità possibili, e si estrapolano i dati ad aree sempre più vaste. Un
po’ come gli exit-poll elettorali insomma.
Da pochi ricostruisco tutti.
Una domanda che si trascina irrisolta da lungo tempo
nell’ecologia è: come è possibile ricavare informazioni su larga, larghissima
scala, riguardo al numero, distribuzione e densità di specie servendosi di
pochissimi parametri semplici e facili da individuare? O meglio: come posso ad
esempio conoscere con un’ottima approssimazione quante specie di animali (di
qualunque tipo, dagli invertebrati in alto sul “canopy” ai felini più elusivi)
corrono, volano strisciano in TUTTO il bacino amazzonico? Sì, avete letto bene,
TUTTO. E badate bene: senza iniziare il censimento da imberbi e brufolosi “undergraduated” e finirlo da
barbuti e rugosi “full professor”, che tra l’altro non basterebbe.
Quando si incomincia a parlare di macroecologia (il settore di studio
che tenta di trovare risposte operative a domande globali da nulla, quali la
perdità di biodiversità su larga scala, le conseguenze della frammentazione
dell’habitat sul tasso di estinzione delle specie, il ruolo del global warming
nell’acidificazione degli oceani e nella trasformazione degli ecosistemi
polari, e così via… ) occorre estrapolare in maniera concettualmente semplice,
ecologicamente appropriata e ottimale, ovvero priva di “bias”, le tanto temute
assunzioni non facenti parti del modello. E per estrapolare occorrono modelli
matematici complessi nel risultato ma di facile accesso nella raccolta dei
dati. Ecologia e matematica assieme quindi. Cosa c’è di
meglio allora di un fisico teorico esperto di termodinamica per risolvere il
puzzle?
No, non è Doc. Lui è John Harte. Non andrà in giro in
DeLorean ma rimane un mezzo pazzo genialoide, diciamocelo. Yale University,
convertito presto all’ecologia dove ha portato il suo immenso bagaglio fisico e
statistico al servizio di uno studio monumentale (ancora in corso) sulla
simulazione del clima previsto nel 2050 e sui possibili effetti sul suolo e
organismi.
Poi ha puntato il suo occhio rapace sulla macroecologia. E ti è venuto
fuori con questa:
Maximum Entropy Theory
of Ecology (METE). Dove in pratica viene recuperata la teoria della
“maximum information entropy” (MaxEnt) di metà del ‘900, che, partendo dai
principi termodinamici, permette di “scegliere” la migliore distribuzione di
probabilità di una serie di dati massimizzando l’informazione, ovvero
aumentando la certezza della misura dello stato del sistema.
Ma la genialità di Harte sta nell’applicazione di questa
MaxEnt alla macroecologia. Il risultato è questa Maximum Entropy Theory of
Ecology (METE), che permette di descrivere accuratamente le comunità ecologiche
in una grande varietà di scenari usando solo poche variabili: le dimensioni di
una piccola area, il numero di specie e di individui che contiene con il
rispettivo tasso metabolico.
Volete sapere quale è stata la prima reazione del mondo
accademico?
“You’ve opened up a whole new theory, and
you’re an idiot, because we all know that mechanism matters in ecology.”
Tuttavia, l’applicazione della teoria in censimenti effettuati nella
foresta panamense, amazzonica e nella catena montuosa dei Wester Ghats
indiani dimostrano che il giochino funziona.
Spiegare molto con poco è la filosofia. Non occorre più
tenere in considerazione la velocità di spostamento del rinoceronte, il numero
di accoppiamenti giornaliero del bonobo, la temperatura dell’acqua del fiume o
se il giaguaro ha fatto indigestione. Ma bastano solo poche variabili, facili
da ottenere.
La straordinaria potenza di questo approccio sta nella sua
applicazione a fini conservazionistici. Rispondere a problemi quali stimare la
biodiversità di aree immense partendo da piccoli censimenti, stimare il numero
di specie potenzialmente in pericolo di estinzione a causa della frammentazione
del loro habitat, o determinare la presenza di una specie conoscendo solo i
suoi requisiti ecologici, non sembra più rappresentare un grosso problema.
Certo, siamo solo agli inizi e la teoria va perfezionata.
Sembra ad esempio non funzionare bene in ecosistemi in rapido cambiamento. Ma
Harte sta esplorando nuove frontiere, annusa, inciampa, prova nuove direzioni.
La sua visione per il futuro? Trovare una teoria unificata
per l’ecologia, descrivere il mondo vivente con poche variabili.
Come ogni anno, il prossimo febbraio/marzo 2015 faremo una
bella scampagnata nelle foreste indiane. Itinerario ecoturistico sorprendente
per gli avvistamenti dei grandi felini (tra cui LEI) e per la megafauna
(parliamo di bestie obese sopra i 1000 kg).Tanti uccelli (molti endemici),
qualche rettile, una moltitudine di palchi e corna, primati che volteggiano…
Qui si rivaleggia con l’Africa per abbondanza e diversità.
Ma scordatevi le resse (il turismo naturalistico è per lo più indiano), e
magari rispolverate Kipling e Salgari, che l’atmosfera è rimasta quella.
Visto lo strepitoso successo degli ultimi due anni in termini di
avvistamenti, anche il prossimo inverno ripeteremo l’itinerario che tocca i 5
parchi nazionali di Sasan Gir,Velavadar, Bandhavgarh, Kanha e Kaziranga. Dalla
penisola del Gujarat nell’ovest fino alle aree più remote dell’Assam a est. Non è proprio andata così:
…ma abbiamo avuto la nostra dose di avventura.
Queste sono a grandi linee le bestie che ci hanno accolto lo scorso
inverno (mammals only…).
Sasan Gir
L’obiettivo dei safari in questa foresta secca è
evidentemente il leone asiatico (Panthera leo persica). Direi che siamo
stati fortunati (e bravi):
con la parata finale del bel maschio come ricompensa della
frustrazione dei primi due safari.
Ovviamente tanti chital, o cervi pomellati (Axis axis) con i loro
associati entelli, (Semnopithecus entellus), qualche Nilgai (Boselaphus
tragocamelus) e qualche mangusta grigia indiana (Herpestes edwardsii) in, ehm, attività…
Poi altre piccole e insignificanti cosette, tra cui tre
leopardi (Panthera pardus fusca), di cui uno in caccia su chital. Roba
del genere insomma:
in cui si osserva bene la scomparsa del gattone tra le
foglie (ocelli e vela bianca della coda nascosti…), la triangolazione del
chital e l’avvertimento con lo zoccolo, e la frustrazione finale del micione. QUI trovate il video se
volete proprio farvi male…
Missing: iena striata (Hyaena hyaena) e Chinkara, o
gazzella indiana (Gazella bennettii). Ci contiamo per il prossimo
inverno.
Velavadar
Anche qui si va sul sicuro. Il meraviglioso Bluckbuck (Antilope
cervicapra) si avvista già all’approssimarsi del Parco Nazionale, dopo si
può consumare un’intera scheda di memoria a fotografarlo in gruppo, maschi,
femmine, adulti subadulti…
Anche qualche scena dinamica, con un cane che si
crede lupo
A proposito di lupi: Velavadar è noto per la
facilità di osservazione del Canis lupus Effettivamente lo abbiamo
intercettato, anche se ad una distanza imbarazzante, degna da un avvistamento
di Bigfoot:
Poi ancora molti cinghiali (Sus scrofa cristatus),
nilgai e poi lui, che non ruggisce, non spaventa ma è terribilmente bello (e
mimetico): il gatto della giungla (Felis chaus)
Sono emozioni. Leone, leopardo e gatto della
giungla in due parchi. Deve ancora arrivare LEI, ma questi gattoni hanno
preparato l’humus adatto.
Bandhavgarh
In questo Parco, antico possedimento del maharaja di Rewa, ci si immerge
nell’India più classica: giungla umida e spazi aperti degni di Kipling. Inutile
dire che siamo qui per LEI: la tigre del Bengala (Panthera tigris ssp.
tigris). Nell’ambiente dell’ecoturismo questo parco è riconosciuto negli
ultimi anni come il migliore per l’osservazione della tigre (oltre che in
termini di conservazione nell’ambito del Project Tiger): effettivamente a
vedere quello che è ci ha regalato l’anno prima tremano le gambe per
l’inevitabile confronto:
Con le tigri accidentalmente colte anche di notte
sul bordo strada.
Quest’anno non ci va bene: su 6 safari, tra
richiami di allarme, impronte fresche e sterzate in jeep portiamo a casa un
solo avvistamento, ma da brividi: un maschio enorme di oltre 200 kg. Il suo
nome: Blue eyes. Il principe azzurro insomma.
Il motivo è presto detto: un territorio scoperto perso da un
maschio dominante e conteso da due o tre giovinotti, con addio a pattugliamenti
prevedibili e costanti all’alba e tramonto.
Proveremo a Kanha ad avere più fortuna, intanto però
arricchiamo i nostri avvistamenti con dei bell’esemplari di sciacallo dorato (Canis
aureus), l’imponente gaur (Bos gaurus), il sambar (Rusa unicolor),
il muntjac (Muntiacus muntjak), il chowsingha o antilope quadricorne (Tetracerus
quadricornis) e l’orso labiato (Melursus ursinus).
Anche tanti macachi rhesus (Macaca mulatta), oltre che i soliti
chital.
Ah, il nostro secondo gatto della giungla ci viene
a trovare al lodge:
Kanha
Con la bava alla bocca e gli occhi iniettati di sangue
informiamo ai driver e ai guardaparco che la tigre è la nostra priorità nei
safari a Kanha, anche se capiscono bene che la nostra non è una priorità ma
un’ossessione ormai. Quindi vanno bene i pavoni, i gaur, sambar, chital e
compagnia bella, ma che si dia inizio alla caccia.
Beh, che dire, Kipling non sbaglia: 3 safari e 5 avvistamenti di tigri
(4 esemplari), principalmente subadulti e femmine.
Ormai rilassati e soddisfatti da questa overdose di
tigri ci gustiamo tutto il resto, principalmente il barasingha (Rucervus duvaucelii branderi, rarissima sottospecie, ridotta in passato a soli 60
individui).
Di sfuggita intravediamo anche un leopardo sopra una roccia
che scompare subito.
Missione compiuta, è ora di muoversi a est a vedere i giganti.
Kaziranga
Il Regno degli Unicorni, così viene definito questo Parco Nazionale
incastrato tra il Bhutan, il Tibet, il Bangladesh e il Myanmar. O dei Giganti,
vista la mole della fauna preservata in maniera estesa solo qui in Asia.
Rinoceronte indiano (Rhinoceros unicornis, fino a2100 kg),
elefante asiatico (Elephas maximus fino a3000 kg), bufalo
asiatico selvatico (Bubalus arnee, fino a 1200 kg) e gaur (Bos
gaurus, fino a 1200 kg) sono i FabFour di questo parco nella piana
alluvionale del Brahmaputra.
Non occorre neanche cercarli, ma per avvicinarli
meglio utilizzare mezzi alternativi:
La tigre ha numeri da capogiro in questo parco (la
più alta al mondo), ma la difficoltà nell’avvistarla è dovuta all’alta
vegetazione erbacea. Eppure riusciamo anche qui a vederla, a distanza siderale
sdraiata in riva ad un laghetto. Il nostro settimo avvistamento, da piangere
dall’emozione.
Tra le new entries è facilmente avvistabile il
cervo porcino (Axis porcinus) dall’inconfondibile assetto e modo di
correre e la lontra liscia (Lutrogale perspicillata)
Con una volpe volante indiana che segue dall’alto la nostra
jeep la sera, si conclude il nostro itinerario indiano. Non abbiamo accennato
alla moltitudine di uccelli, ai rettili (pitone
moluro, coccodrillo palustre, varano del bengala…) e ai panorami e alle magiche
suggestioni che l’India ci ha regalato.
Di sicuro affiancheremo in futuro almeno un altro itinerario
a quello qui descritto: la zona dell’Assam merita sicuramente un
approfondimento, principalmente per i primati (gibbone hoolock, langur dorato, loris lento, vari
macachi…), i felini (leopardo nebuloso,tigre), orsi, dhole e magari il
Platanista, o delfino di fiume. L’Hymalaya pure (il Ladakh anche se lontano si
presterebbe bene a questo itinerario settentrionale): coniugare la
straordinaria fauna dell’Assam con quella dell’Hymalaya (antilopi e tutti gli
straordinari bovidi di alta quota, oltre che naturalmente LUI, il leopardo
delle nevi) sembra fattibile.