giovedì 27 novembre 2014

L' Etica nella fotografia naturalistica


Panthera onca.

 Foto di Monia Bernardi

Ancora Panthera onca.



Quest'ultima presa da qua. Dove ne trovate altre, quante ne volete.

 
La prima è stata scattata lungo il fiume Paraguay, vicino al confine tra Brasile e Bolivia, durante il nostro ultimo viaggio dell’estate scorsa.
La seconda è stata scattata in un qualche zoo in giro per il mondo.

La prima ha richiesto più di 10 ore di canoa veloce lungo il fiume Paraguay, per un totale di oltre 200 km. La foto è stata scattata dalla canoa, il fotografo non ha potuto decidere  l’inquadratura, l’angolazione della luce, e soprattutto la durata dell’incontro. Che è stato di circa 12 minuti.

La seconda ha richiesto presumibilmente mezz’ora di auto per lo zoo, il biglietto di ingresso e qualche dollaro per le patatine e una bibita fresca. Il giorno migliore lo ha deciso il fotografo, l’ora con la luce perfetta pure.

La differenza, al netto dei tecnicismi fotografici, sta nello sguardo dell’animale. Trovate le differenze da voi.



Con l’avvento della fotografia digitale e il moltiplicarsi dei più o meno seri concorsi fotografici, la fotografia naturalistica si trova di fronte ad un bivio. O meglio un labirinto di via da percorrere, lastricate di buoni propositi, ansia da prestazione e tanta furbizia.
Guardate queste foto recenti, più o meno note, più o meno premiate, più o meno furbe.




















 

Lascio a voi decidere quali sono gli animali che sono stati noleggiati (sì, avete capito bene…), quali sono stati attirati con delle esche, quali sono stati spacciati per quello che non erano, quali sono il risultato di artifici digitali da apprendista stregone.
 
Qui, qui qui trovate la soluzione.


L’etica della fotografia naturalistica. 
Questa sconosciuta. Che si tratti di animali in cattività spacciati per liberi o di cosmesi digitale, c’è un modo facile e un modo “wild” per fotografare animali. Al simposio londinese di WildPhoto del 2010 è stato chiesto a 400 fotografi naturalistici di confessare i propri peccatucci e di rivelare i desideri proibiti. Ebbene, se la pratica di noleggiare un animale come modello è parsa accettabile solo al 5% dei fotografi, il fotografare animali allo zoo non è parsa ai più una scelta deprecabile (70%), ammettendo ovviamente lo stato di cattività dell’animale (90%). Poi vanno bene i ritocchino chirurgici digitali (80% degli intervistati) e persino qualche aggiunta posticcia (5%), anche se meno di un terzo dei fotografi ammetterebbe questi lifting.

Nemmeno se la cosa scavalca allegramente il ridicolo per impantanarsi nel patetico, come questo signor fotografo svedese (pluripremiato) dotato del superpotere di vedere e fotografare linci ovunque, anche dove non avrebbero dovuto esserci…


 
E cosa dire della smania di avvicinarsi al soggetto sempre di più (la regola aurea di Robert Capa “se le vostre foto non sono abbastanza buone non siete abbastanza vicino” non è consigliabile con un giaguaro di 130 kg che ti fissa negli occhi…), o di farselo portare dalla guida giù da un albero sto benedetto animale, per sistemarlo bene in posa (con i bradipi brasiliani è prassi comune…)?

Fioccano le linee guida, i dogmi e i paletti della fotografia naturalistica. Questi sono quelli afferenti alla “North American Nature Photography Association” (NANPA).

  
Se è vero che può essere tremendamente difficile fotografare molti animali elusivi in natura, e che orde di fotografi sparsi nelle foreste e giungle di tutto il mondo potrebbero causare danni ecologici rilevanti (passivi come nel caso di una frequentazione assidua di un’area ecologica e attivi come l’avvicinarsi troppo ai piccoli, a siti di riproduzione, nidi…), i ritratti intimi di tigri, orsi e pinguini dietro le sbarre di uno zoo difficilmente possono essere considerati “fotografia naturalistica”, ma più chiaramente rappresentano l’ennesimo tentativo di appagare il nostro lato “wild” con dei surrogati addomesticati, e di trasformare la wilderness in un artefatto umano.

Noi preferiamo altro. 
Questo è il nostro giaguaro (fra i tre che abbiamo visto). 
Agosto 2014, Pantanal brasiliano.


Foto di Monia Bernardi




lunedì 17 novembre 2014

La Domanda dalla Risposta impossibile


Perché mai si dovrebbe scrivere nello stesso post di lupi grigi dello Yellowstone, di un’improvvisa voglia di carne da parte dell’ Homo erectus e dell’estinzione di 6 miliardi di esseri umani entro il 2100?

No, fermi! Non incominciate a immaginare lupi che sbranano miliardi di persone od ominidi del primo Pleistocene che cucinano lupi alla griglia.



Immaginate meglio. Siate creativi.


La prima immagine che si materializza è quella di un branco di lupi grigi nelle foreste montane di Yellowstone, Wyoming. E di cervi. E di pioppi e salici.


 
Da circa quindici anni si sta dibattendo sul fatto che lupi, cervi e alberi siano strettamente collegati in quella che tecnicamente viene definita Trophic cascade, un matrimonio alimentare “finchè morte non vi separi”.

Elimino i lupi (come accaduto dal 1880 al 1920)? I cervi sguazzano, le piantine di Populus tremuloides, Populus trichocarpa, Populus angustifolia Salix boothii e Salix geyeriana un po’ meno.

Reintroduco i lupi (come avvenuto dal 1995/1996)? I cervi eviteranno le aree con più alta densità di lupi a beneficio del reclutamento delle piantine.



È un sistema top-down: il predatore che sta in cima alla torre d’avorio è il demiurgo della situazione, “decide”, la densità delle sue prede, il loro comportamento, con ricadute demografiche sul livello alimentare inferiore.

Bello e semplice, come da manuale. Ci hanno persino fatto un articolo del National Geographic qualche tempo fa:



Ma non del tutto vero.

O meglio: non basta a descrivere i fenomeni ecologici osservati. Ad esempio c’è chi dice che:



“Predators can be important, but they aren’t a panacea.”



Che sono favole che ci raccontiamo per semplificare il tutto, che non bastano.



“Everyone likes to think of the big wolf or the big bear looking after the environment,[…] we do love a good story.”



Occorre invece anche rispolverare i vecchi processi ecologici di bottom-up. Ovvero di regolazione della catena dal basso, partire dai fattori abiotici quali la composizione chimica del suolo, le risorse del terreno, il clima, lo stravolgimento dell’habitat, che influenzano la biomassa vegetale che a sua volta regolerà le dinamiche dei consumatori primari e su fino ai predatori. Che quindi risultano un po’ più passivi, attori di secondo piano che non hanno il potere di modellare i sistemi ecologici. Che la sfida per gli ecologi è quindi di integrare le due visioni se si vuole fare luce sulla questione.


Mettiamo da parte per un momento i nostri lupi, la seconda immagine ci catapulta nel primo Pleistocene, circa 1,5 milioni di anni fa.
Africa orientale. Serengeti per esempio. Chi è venuto con noi in viaggio sa di quale meraviglia si sta parlando. Un luogo primordiale, incontaminato, con una fauna in larga parte rimasta immutata nel tempo…


 
Come no. Sbinocolando avete avvistato tigri dai denti a sciabola? Iene enormi dalle zampe lunghissime? Enormi orsi-cane? Tassi grandi quanto un leopardo?

Il fatto è che i siti fossili dell’Africa Orientale ci svelano un caravanserraglio di carnivori alieni ai nostri occhi che si sono succeduti nel tempo che va dai 7,5 a 1,5 milioni di anni fa, un avvicendarsi di comunità diverse nella composizione ma costanti nel mantenimento dei tratti tipici dei carnivori.

E poi tra 2 e 1,5 milioni di anni fa PUFF! Interi gruppi funzionali che scompaiono, tassi di estinzione sempre più veloci, comparsa degli attuali leoni, leopardi e compagnia bella…

Cosa è successo?

Un’ipotesi che sta emergendo riguarda noi, o meglio quel bruto dell’ Homo erectus. Emerge circa 1,5 milioni di anni fa e stravolge tutto. Cosa gli viene in mente a questo qua? Si fa un cervello più grande, incomincia a costruire utensili, coopera, si arma e…cambia dieta. Non solo radici, bacche e piantine, ma anche carne, carne, carne. E poco importa se c’è di mezzo una sabertooth. Fatto sta che la competizione con i carnivori potrebbe essere diventata pressante, e l’alzati Lazzaro l’avrebbe spuntata. Con ricadute drammatiche sull’intero sistema ecologico sottostante. Effetto Top-down, una bella cascata trofica ad arte.



E infine arriviamo alla terza immagine.

Ciò che i lupi di Yellowstone hanno abbozzato e l’ Homo erectus ha intrapreso, l’ Homo sapiens ha perfezionato.

Una perfetta cascata trofica dall’alto al basso, un ruolo da burattinaio che nessun supercarnivoro ha mai esercitato sugli ecosistemi.





A quanto pare siamo tanti e affamati.

La bella notizia è che, estrapolando la legge di Moore, in un qualche futuro la tecnologia ci potrebbe aiutare a produrre meglio, consumare meno, salvaguardare di più.
La cattiva notizia è questa:

 
Fig. 4. Regional variation and impacts. Human population projections under the BAU levels of population growth (2013 matrix; Scenario 1) for 14 subregions

(R1–R14; see below for country composition). Regional shading indicates relative mean population density projected for 2100: white shading = 0 persons km2 to

darker shading = 656.6 persons km2). Values next to each region line (legends) indicate the ratio of the projected 2100 population (N2100) to the 2013 start

population (N2013). Red hatched overlay indicates position of global Biodiversity Hotspots
(From: Bradshow C.J.A. & Brook B.W. 2014 “Human population reduction is not a quick fix for environmental problems.” PNAS)


 
Guardate un po’ questo articolo pubblicato recentemente su PNAS.

La simulazione di possibili eventi e la loro conseguenza sulla curva demografica umana ci dice che  per diminuire la popolazione mondiale ad un livello accettabile nel 2100 (diciamo fino a 4-5 miliardi) non basterebbero politiche di contenimento della natalità su scala globale (se non l’impossibile proposta di un figlio per coppia con tassi di mortalità non ridotti), eventi di mortalità di massa della durata di 5 anni iniziati nel 2056 con un numero di morti pari alla somma di quelli delle due guerre mondiali e dell'influenza spagnola, apocalissi da 2 miliardi di morti, mortalità infantili su larga scala dovute a cambiamenti climatici…



Solo la linea 9 (a meno che non si attui la già citata politica del figlio unico su scala globale, come no) potrebbe essere sufficiente per tarare la popolazione mondiale a 4-5 miliardi nel 2100.

Di cosa si tratta? Nulla di cui spaventarsi, una pandemia o una guerra iniziata nel 2041 della durata di 5 anni. Con 6 miliardi di morti.



   
I più misantropi penserebbero che “No Bruce, non dovevi proprio salire su quell’asteroide…”

mercoledì 5 novembre 2014

La Termodinamica dell' Ecologia


Mettiamo che una mattina alzandovi dal letto decidiate di volere conoscere quante e quali specie si nascondano nella foresta amazzonica. Un domanda più che lecita, tra la brioche e il cappuccino. Chi di voi ci ha seguito nei nostri ultimi viaggi in Amazzonia, Uganda e altri posti impenetrabili potrebbe avere un cedimento della mascella inferiore a questa richiesta.



La ricetta giusta per eseguire un ottimo ed esaustivo piano di censimento faunistico su larga scala in territori inospitali contempla i seguenti ingredienti (tra i tanti):





 
Che, diciamocelo, appare piuttosto improbabile da realizzare. A meno che non vogliate passare tutte le prossime domeniche della vostra vita a strisciare nel fango e ad arrampicarvi su alberi alti 30 metri sacrificando i picnic fuori porta con la famiglia e le gite col cane.


Ma allora come si fa nella realtà?


Si fa che si prendono una o più piccola aree (plot) o si eseguono dei transetti, e li si vivisezionano per anni, annotando il numero, l’identità, la distribuzione, il comportamento, i rapporti trofici e il maggior numero di altre informazioni riguardo le specie e l’ambiente in cui vivono. Da impazzirci. E poi  in qualche modo si costruisce un modello statistico scegliendo tra le innumerevoli distribuzioni di probabilità possibili, e si estrapolano i dati ad aree sempre più vaste. Un po’ come gli exit-poll elettorali insomma. Da pochi ricostruisco tutti.


 
Una domanda che si trascina irrisolta da lungo tempo nell’ecologia è: come è possibile ricavare informazioni su larga, larghissima scala, riguardo al numero, distribuzione e densità di specie servendosi di pochissimi parametri semplici e facili da individuare? O meglio: come posso ad esempio conoscere con un’ottima approssimazione quante specie di animali (di qualunque tipo, dagli invertebrati in alto sul “canopy” ai felini più elusivi) corrono, volano strisciano in TUTTO il bacino amazzonico? Sì, avete letto bene, TUTTO. E badate bene: senza iniziare il censimento da imberbi  e brufolosi “undergraduated” e finirlo da barbuti e rugosi “full professor”, che tra l’altro non basterebbe.

Quando si incomincia a parlare di macroecologia (il settore di studio che tenta di trovare risposte operative a domande globali da nulla, quali la perdità di biodiversità su larga scala, le conseguenze della frammentazione dell’habitat sul tasso di estinzione delle specie, il ruolo del global warming nell’acidificazione degli oceani e nella trasformazione degli ecosistemi polari, e così via… ) occorre estrapolare in maniera concettualmente semplice, ecologicamente appropriata e ottimale, ovvero priva di “bias”, le tanto temute assunzioni non facenti parti del modello. E per estrapolare occorrono modelli matematici complessi nel risultato ma di facile accesso nella raccolta dei dati.

Ecologia e matematica assieme quindi. Cosa c’è di meglio allora di un fisico teorico esperto di termodinamica per risolvere il puzzle?


 

No, non è Doc. Lui è John Harte. Non andrà in giro in DeLorean ma rimane un mezzo pazzo genialoide, diciamocelo. Yale University, convertito presto all’ecologia dove ha portato il suo immenso bagaglio fisico e statistico al servizio di uno studio monumentale (ancora in corso) sulla simulazione del clima previsto nel 2050 e sui possibili effetti sul suolo e organismi.
Poi ha puntato il suo occhio rapace sulla macroecologia. E ti è venuto fuori con questa:

 http://swarma.org/thesis/doc/xqc20111219192406.pdf

Maximum Entropy Theory of Ecology (METE). Dove in pratica viene recuperata la teoria della “maximum information entropy” (MaxEnt) di metà del ‘900, che, partendo dai principi termodinamici, permette di “scegliere” la migliore distribuzione di probabilità di una serie di dati massimizzando l’informazione, ovvero aumentando la certezza della misura dello stato del sistema. 

 
Ma la genialità di Harte sta nell’applicazione di questa MaxEnt alla macroecologia. Il risultato è questa Maximum Entropy Theory of Ecology (METE), che permette di descrivere accuratamente le comunità ecologiche in una grande varietà di scenari usando solo poche variabili: le dimensioni di una piccola area, il numero di specie e di individui che contiene con il rispettivo tasso metabolico.



Volete sapere quale è stata la prima reazione del mondo accademico?


“You’ve opened up a whole new theory, and you’re an idiot, because we all know that mechanism matters in ecology.”


Tuttavia, l’applicazione della teoria in censimenti effettuati nella foresta panamense, amazzonica e nella catena montuosa dei Wester Ghats indiani dimostrano che il giochino funziona.

 
Spiegare molto con poco è la filosofia. Non occorre più tenere in considerazione la velocità di spostamento del rinoceronte, il numero di accoppiamenti giornaliero del bonobo, la temperatura dell’acqua del fiume o se il giaguaro ha fatto indigestione. Ma bastano solo poche variabili, facili da ottenere.

La straordinaria potenza di questo approccio sta nella sua applicazione a fini conservazionistici. Rispondere a problemi quali stimare la biodiversità di aree immense partendo da piccoli censimenti, stimare il numero di specie potenzialmente in pericolo di estinzione a causa della frammentazione del loro habitat, o determinare la presenza di una specie conoscendo solo i suoi requisiti ecologici, non sembra più rappresentare un grosso problema.

Certo, siamo solo agli inizi e la teoria va perfezionata. Sembra ad esempio non funzionare bene in ecosistemi in rapido cambiamento. Ma Harte sta esplorando nuove frontiere, annusa, inciampa, prova nuove direzioni.

La sua visione per il futuro? Trovare una teoria unificata per l’ecologia, descrivere il mondo vivente con poche variabili.
Esagerato…