Perché mai si dovrebbe scrivere nello stesso post di lupi
grigi dello Yellowstone, di un’improvvisa voglia di carne da parte dell’ Homo
erectus e dell’estinzione di 6 miliardi di esseri umani entro il 2100?
No, fermi! Non incominciate a immaginare lupi che sbranano
miliardi di persone od ominidi del primo Pleistocene che cucinano lupi alla
griglia.
Immaginate meglio. Siate creativi.
Da circa quindici anni si sta dibattendo sul fatto che lupi,
cervi e alberi siano strettamente collegati in quella che tecnicamente viene
definita Trophic cascade,
un matrimonio alimentare “finchè morte non vi separi”.
Elimino i lupi (come accaduto dal 1880 al 1920)? I cervi
sguazzano, le piantine di Populus tremuloides, Populus trichocarpa,
Populus angustifolia
Salix boothii e Salix geyeriana un po’ meno.
Reintroduco i lupi (come avvenuto dal 1995/1996)? I cervi
eviteranno le aree con più alta densità di lupi a beneficio del reclutamento
delle piantine.
È un sistema top-down: il predatore che sta in cima
alla torre d’avorio è il demiurgo della situazione, “decide”, la densità delle
sue prede, il loro comportamento, con ricadute demografiche sul livello
alimentare inferiore.
Bello e semplice, come da manuale. Ci hanno persino fatto un
articolo del National Geographic qualche tempo fa:
Ma non del tutto vero.
O meglio: non basta a descrivere i fenomeni ecologici
osservati. Ad esempio
c’è chi dice che:
“Predators can be important, but
they aren’t a panacea.”
Che
sono favole che ci raccontiamo per semplificare il tutto, che non bastano.
“Everyone likes to think of the big
wolf or the big bear looking after the environment,[…] we do love a good
story.”
Occorre
invece anche rispolverare i vecchi processi ecologici di bottom-up.
Ovvero di regolazione della catena dal basso, partire dai fattori abiotici
quali la composizione chimica del suolo, le risorse del terreno, il clima, lo
stravolgimento dell’habitat, che influenzano la biomassa vegetale che a sua
volta regolerà le dinamiche dei consumatori primari e su fino ai predatori. Che
quindi risultano un po’ più passivi, attori di secondo piano che non hanno il
potere di modellare i sistemi ecologici. Che la sfida per gli ecologi è quindi
di integrare le due visioni se si vuole fare luce sulla questione.
Africa orientale. Serengeti per esempio. Chi è venuto con noi in viaggio sa di quale meraviglia si sta parlando. Un luogo primordiale, incontaminato, con una fauna in larga parte rimasta immutata nel tempo…
Come no. Sbinocolando avete avvistato tigri dai denti a
sciabola? Iene enormi dalle zampe lunghissime? Enormi orsi-cane? Tassi grandi
quanto un leopardo?
Il fatto è che i siti fossili dell’Africa Orientale ci svelano
un caravanserraglio di carnivori alieni ai nostri occhi che si sono succeduti
nel tempo che va dai 7,5 a 1,5 milioni di anni fa, un avvicendarsi di comunità
diverse nella composizione ma costanti nel mantenimento dei tratti tipici dei
carnivori.
E poi tra 2 e 1,5 milioni di anni fa PUFF! Interi gruppi
funzionali che scompaiono, tassi di estinzione sempre più veloci, comparsa
degli attuali leoni, leopardi e compagnia bella…
Cosa è successo?
Un’ipotesi
che sta emergendo riguarda noi, o meglio quel bruto dell’ Homo erectus.
Emerge circa 1,5 milioni di anni fa e stravolge tutto. Cosa gli viene in mente
a questo qua? Si fa un cervello più grande, incomincia a costruire utensili,
coopera, si arma e…cambia dieta. Non solo radici, bacche e piantine, ma anche
carne, carne, carne. E poco importa se c’è di mezzo una sabertooth. Fatto sta
che la competizione con i carnivori potrebbe essere diventata pressante, e
l’alzati Lazzaro l’avrebbe spuntata. Con ricadute drammatiche sull’intero
sistema ecologico sottostante. Effetto Top-down, una bella cascata
trofica ad arte.
E infine arriviamo alla terza immagine.
Ciò che i lupi di Yellowstone hanno abbozzato e l’ Homo
erectus ha intrapreso, l’ Homo sapiens ha perfezionato.
Una perfetta cascata trofica dall’alto al basso, un ruolo da burattinaio
che nessun supercarnivoro ha mai esercitato sugli ecosistemi.
A quanto pare siamo tanti e affamati.
La bella notizia è che, estrapolando la legge di Moore, in un
qualche futuro la tecnologia ci potrebbe aiutare a produrre meglio, consumare
meno, salvaguardare di più.
La cattiva notizia è questa:
Fig. 4. Regional
variation and impacts. Human population projections under the BAU levels of
population growth (2013 matrix; Scenario 1) for 14 subregions
(R1–R14; see below
for country composition). Regional shading indicates relative mean population
density projected for 2100: white shading = 0 persons km−2 to
darker shading =
656.6 persons km−2). Values next to
each region line (legends) indicate the ratio of the projected 2100 population
(N2100) to the 2013 start
population (N2013). Red hatched overlay indicates position of global Biodiversity
Hotspots
(From:
Bradshow C.J.A. & Brook B.W. 2014 “Human population reduction is not a
quick fix for environmental problems.” PNAS)
Guardate un po’ questo articolo pubblicato recentemente su PNAS.
La simulazione di possibili eventi e la loro conseguenza sulla
curva demografica umana ci dice che per
diminuire la popolazione mondiale ad un livello accettabile nel 2100 (diciamo
fino a 4-5 miliardi) non basterebbero politiche di
contenimento della natalità su scala globale (se non l’impossibile proposta di
un figlio per coppia con tassi di mortalità non ridotti), eventi di mortalità
di massa della durata di 5 anni iniziati nel 2056 con un numero di morti pari
alla somma di quelli delle due guerre mondiali e dell'influenza spagnola,
apocalissi da 2 miliardi di morti, mortalità infantili su larga scala dovute a
cambiamenti climatici…
Solo la linea 9 (a meno che non si attui la già citata
politica del figlio unico su scala globale, come no) potrebbe essere
sufficiente per tarare la popolazione mondiale a 4-5 miliardi nel 2100.
Di cosa si tratta? Nulla di cui spaventarsi, una pandemia o
una guerra iniziata nel 2041 della durata di 5 anni. Con 6 miliardi di morti.
I più misantropi penserebbero che “No Bruce, non
dovevi proprio salire su quell’asteroide…”
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